sabato 13 aprile 2013

Il sesso del Putthanone mette a nudo le magagne sociali


Vivian Lamarque nel presentare il libro di poesie di Alda MeriniIl canto ferito” scrive: “Ogni animale all’incontro con una specie, anche leggermente diversa, arretra di un passo”. Così mi sono trovata quando ho letto, per la prima volta, il libro di Raimondo MoncadaDal Partenone di Atene al Putthanone di Akràgas”.
Sono fuggita come l’animale di cui sopra.
Poi l’ho ripreso ed ho capito che non sono fuggita dal racconto di Raimondo, ma dalla mia educazione “ipocrita farisea” dovuta alla lunga permanenza in un collegio di suore (13 anni) dove tutto era peccato.
Pensavo di aver superato quella “forma mentis”, ma, ahimè, mi ero solo illusa.
Ho ripreso il libro. L’ho letto! L’ho riletto e mi sono accorta che meritava una lettura più approfondita perché quello che mi aveva infastidito – il sesso “sfrenato” – era solo la crosta superficiale.
Ha ben ragione Emanuele Trevi: “Un essere umano è la somma delle sue paure e del suo lupo”. Per uccidere il “lupo” (sesso), Raimondo usa la satira che gli è congeniale. 
“Satura” ebbe nel mondo greco-romano (da cui proviene) parecchi significati. Diomede, IV secolo a.C., definisce la satira una composizione poetica destinata a colpire i vizi degli uomini. Il significato della parola lo collega a “satyroi”, esseri mitici dall’aspetto in parte equino o caprino, dal carattere giocoso, che amavano beffarsi degli uomini. La “satira” veniva intesa come piatto ricolmo di primizie da offrire agli dei.
Il racconto è come la vita”, sosteneva Roland Barthes, “ciò che conta è lo slancio pragmatico più che conoscitivo del suo autore verso la sua foce: una rappresentazione della vita che ne sveli la continua stupidità (sessuale, in questo caso) esercitata esemplarmente sul singolo, ma tale da destare una risata che coinvolge l’universale”.
Il racconto che Raimondo fa del suo libro rivela l’atteggiamento disincantato e talvolta venato di amarezza con il quale guarda alle contraddizioni e alle bizzarrie della vita sessuale dell’uomo. Dà ragione a Vitaliano Brancati  quando, nel  “Don Giovanni in Sicilia”, afferma che “l’uomo siciliano il sesso ce l’ha in testa”.
Nel 1918 il critico francese Louis Delluc scriveva: “Guardatevi attorno: le strade, le metropolitane, i tram, i negozi, presentano mille brani, mille commedie originali che sembrano una sfida alle vostre capacità di letterati di ingegno”.
Effettivamente la realtà contemporanea è una fonte inesauribile di ispirazione. Ma Raimondo ha bisogno, per il suo estro creativo, d’altro. La sua sottile ironia, la sua satira, la sua leggerezza nel creare i personaggi e situazioni, lo spingono nella Valle dei Templi di Agrigento. Dopo sudati studi, per caso, una illuminazione: “Akragas polis di pilus”.
Sono concorde con l’emerito professore Kekkina Pallonara che, nella quarta di copertina del libro, scrive: “Dal Partenone di Atene al Putthanone di Akràgas il passo è breve. Da questa illuminazione nasce la storia che Raimondo racconta, ambientata nella mitica Valle dei Templi, polo di attrazione turistica della classicità e dei nostri giorni".

“Dimostrarle che si nasce alla vita in tanti modi, in tante forme: albero o sasso, acqua o farfalla... o
donna. (Luigi Pirandello).
Peppe Zarca, Lillo Cicoria e Pasquale Burrania, sono personaggi delineati con ferocia nell’opera di Raimondo Moncada. Cercatori di verdura selvatica, ignoranti, possessori di un diploma (comprato) di licenza media serale, usano un linguaggio da trivio, da bestemmiatori. Hanno l’aspetto assatanato di “pilu”.
Giumenta: “Putthanones di nomen e di factus”, godereccia, sfrenata, rotta a tutte le esperienze: “Chi non si accontenta gode” è il suo motto.
Atena: morigerata.
Ulisse: “rara avis”, uccello assai raro.
Pio Cornelius: sposo di Giumenta, il cornuto per antonomasia.
Socrate: filosofo greco che con il suo “non sapere”  incrementa la curiosità morbosa della gente del luogo, ma soprattutto dei turisti di tutto il mondo.
Susy La Susy: moglie di Socrate, insegnante prof. Grande consolatrice di discepoli.
Alfonso Canazza: capo degli archeologi, amante dei videogiochi fino a perderci la vista.
Personaggi surreali che hanno in loro qualcosa di ognuno di noi. Raimondo ironicamente li delinea e ci porta a riflettere.
Bellissima e significativa è la pagina dei “Maialoni top secret” e lo “Staff putthanonesco”. Vi si svelano i caratteri umani che sono universali: il nervoso, l’iroso, l’incapace, il presuntuoso, il goloso, il pauroso, il guardone, il matematico, l’incontentabile, il maestro di musica, l’assistente piacente, lo scrittore, il filosofo… Una pagina  che sicuramente strappa un sorriso, ma anche tanta vergogna.
Un merito a sé va al “linguaggio”: oralità misurata che fa ridere, inveire, aggredire, lamentare… e non dà un attimo di tregua.
Originale e dotta la lingua latina che lo scrittore usa con maestria. Complimenti anche per il latino maccheronico.
Che dire del “Divino verbo siciliano”. Attraverso i proverbi, Raimondo Moncada racconta un “epos” popolare che “rivela la fierezza di essere ciò che la cultura popolare insegnava ad essere” (Pasolini).
Attraverso i proverbi, lo scrittore esprime quello che gli preme dire: la nostra società e i nostri costumi corrotti.
Il pensare ossessivo del sesso serve per mettere a nudo le magagne, il pensiero corrente di essere tutti uguali, il disfacimento morale che tocca tutti i ceti sociali. Il culmine del suo messaggio è racchiuso nell’ultimo personaggio, “Renato”. Grazie al sesso, ritrova a 99 anni il suo essere uomo nell’animalità umana.

Tonina Rampello

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